12 dic 2013

Thomas Harris: "Black Sunday" e "Red Dragon"

Il mio primo contatto con l'opera di Thomas Harris è avvenuto nel 1977, quando i miei genitori mi portarono al cinema a vedere Black Sunday, il film che il regista John Frankenheimer aveva ricavato dal primo romanzo dello scrittore.
Avevo otto anni e ricordo che rimasi folgorato dall'idea del dirigibile della Good Year che si incuneava - in procinto di esplodere.e di sterminare tutti gli spettatori presenti - all'interno dello stadio dove si teneva il Superbowl.

Ho sempre tenuto a memoria i punti salienti della trama: le motivazioni del pilota impazzito, la terrorista islamica che lo sobilla, l'agente del Mossad che tenta di sventare l'attentato, la concitazione parossistica della sequenza finale. E la cosa sorprendente è che Black Sunday non è un film leggero, anzi: a distanza di alcuni decenni appare, visto con gli occhi di oggi, spesso lento e farraginoso, mostrando tutti i segni del tempo. Mi chiedo perciò come è stato possibile che un ragazzino di otto anni ne restasse in tal modo rapito, affascinato da una storia pieni di riferimenti a una realtà complessa come quella del terrorismo internazionale.
Black Sunday l'avrei letto sotto l'originale forma di romanzo solo molti anni più tardi, rimanendo conquistato dalla storia alla stessa maniera di quando ero piccolo e in più apprezzandone la prosa efficacissima e il finale che - a differenza di ciò che avviene nel film - vede l'agente del Mossad sacrificare la propria vita per impedire l'esplosione del dirigibile sullo stadio. Un particolare non da poco, che cambia il senso stesso del racconto: se nella pellicola cinematografica il trionfo assoluto dell'agente israeliano si tramuta, simbolicamente, in una sorta di presa di posizione filosionista da parte degli autori, nel romanzo invece la morte degli attentatori e, insieme a loro, del protagonista, induce a una cupa e profonda riflessione allegorica sulle tensioni mediorientali e sul fervore ideologico autodistruttivo che permea tanto gli arabi quanto gli ebrei.


A Thomas Harris ci sarei tornato da adolescente, a metà degli anni Ottanta, ancora una volta in maniera indiretta, quando rimasi scioccato dalla potenza narrativa, visiva e sonora di Manhunter - Frammenti di un omicidio di Michael Mann. Ricordo che lo vidi grazie a una videocassetta pirata, quasi in contemporanea con Vivere e Morire a Los Angeles di William Friedkin, noir metropolitano che sarebbe diventato il film più importante della mia vita (e di cui ho intenzione di tornare a parlare quando recensirò, sulle pagine di questo blog, la biografia di Friedkin che ho da poco finito di leggere).

Manhunter e Vivere e Morire a Los Angeles erano accomunati da un unico attore protagonista - William Petersen, bellissimo, bravissimo e dannatissimo, ancora lungi dal trasformarsi nell'imbolsito interprete della serie TV C.S.I. - e dallo stesso, infame risultato ottenuto al botteghino che portò il primo a contribuire a far avvicinare pericolosamente al fallimento la casa di produzione di De Laurentiis e il secondo all'inesorabile ostracismo di Hollywood nei confronti dell'immenso e incosciente Friedkin.

Manhunter resta ancora oggi un'immortale cattedrale New Wave che all'epoca mi aprì le porte verso territori tematici di cui non avevo neppure idea: l'investigazione scientifica contemporanea, le nuove frontiere del noir, il serial killer come espressione metaforica della società contemporanea, la pietà verso i mostri di cui tutti noi siamo specchio...

Ricordo che mi procurai d'importazione la soundtrack in vinile, ossessionato da pezzi come Strong as I am dei Prime Movers e In a Gadda Da Vida degli Iron Butterfly, che in quel frangente ascoltai per la prima volta in vita mia (nella versione breve da 5 minuti). In seguito Luigi Bernardi, mio amico e mentore recentemente scomparso lasciando un grave vuoto nel panorama culturale italiano, mi avrebbe rivelato che quella di Manhunter era anche la sua colonna sonora di quando scriveva e che ne aveva acquistato on-line tre o quattro esemplari in musicassetta in modo tale da non rimanerne sprovvisto in caso di rottura di nastro.

L'influenza di Manhunter nella mia vita è stata profondissima: ricordo che ci sono stati periodi in cui letteralmente ragionavo avendo nella testa le note di This Big Hush degli Shriekback e di Heartbeat dei Red 7. Scrivevo il mio primo romanzo - La notte dell'Immacolata - e ne visualizzavo le azioni come avrebbe fatto Michael Mann, prendendo a modello ora la scena in cui Francis Dolarhyde porta l'amica cieca Reba a sentire il respiro della tigre addormentata, ora quella in cui Will Graham si precipita fuori dall'ospedale psichiatrico in preda a una crisi di panico, ora quella in cui il serial killer visualizza nella sua mente il tradimento inesistente della donna di cui si è innamorato. Dovevo proporre una tesina universitaria - Pedagogia e Psicologia delle Comunicazioni di Massa - e me ne uscivo con un efficace elaborato basato sul discorso di Graham a proposito di bambini martoriati che si trasformano, da adulti, in mostri.


Il romanzo originale da cui la pellicola era tratta - Red Dragon - mi giunse tra le mani circa un anno dopo aver visto il film. All'epoca in italiano s'intitolava Il delitto della Terza Luna e lo acquistai in formato paperback all'edicola sotto casa dopo che un amico mi aveva rivelato che si trattava del libro che Mann aveva tradotto in immagini per il grande schermo.


La lettura di Red Dragon fu tanto coinvolgente quanto sorprendente: la scrittura di Harris era come sempre assai visiva, cinematografica, ma i personaggi sembravano divergere non poco da come erano invece stati rappresentati in Manhunter. Will Graham, per esempio, non era affatto il tipo atletico e abbronzato incarnato da William Petersen, ma veniva piuttosto descritto come un nerd dalla calvizie incipiente e fisicamente provato dalle sue ossessioni. E il dottor Lecter, il serial killer cannibale? Dopo averlo identificato con le fattezze non propriamente esili di Brian Cox, risultava straniante immaginarlo, così come ti induceva a fare Harris, alto e magro, quasi coi lineamenti di un hidalgo spagnolo.
E il finale poi: tanto lineare e rassicurante quello di Manhunter, quanto perturbante, angoscioso e privo di speranza quello di Red Dragon, con Lector trionfante in carcere e Graham ridotto a una larva, con la faccia orrendamente sfregiata in un letto d'ospedale.


Un epilogo, quello del romanzo, quasi impossibile da tradurre in immagini, con un capitolo conclusivo quasi tutto incentrato sui pensieri oscuri di un Will Graham straziato nel corpo, nella mente e nell'anima. Una mortifera pietra tombale che schiaccia qualsiasi valutazione positiva della ragione umana e che sancisce la gloria di un universo dominato dalle perversioni del cervello rettile.

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