26 dic 2013

"Hannibal": il romanzo e il film

Tra la prima edizione de Il silenzio degli innocenti e l'uscita in libreria di Hannibal, terzo atto della saga di Thomas Harris dedicata al dottor Hannibal "il Cannibale" Lecter, intercorre più di un decennio.
Harris è uno romanziere lentissimo che - per sua stessa affermazione - considera la scrittura come un'esperienza indicibilmente faticosa. Tra Black Sunday, la sua opera prima, e Red Dragon trascorrono sei anni; tra quest'ultimo e Il silenzio degli innocenti, sette.

Negli anni Novanta, Hannibal Lecter ha assunto lo status di nuovo modello di villain, di "uomo nero" di fine millennio. La pellicola diretta da Jonathan Demme e interpretata da Jodie Foster e Anthony Hopkins si è trasformata in un cult movie planetario intorno al quale sono sorti dibattiti di ogni tipo. Sulla scia del successo riscosso dal Cannibale di Harris, nella letteratura d'intrattenimento e nel cinema di cassetta è sorto un florilegio di serial killer - tanto diabolici e geniali quanto pretestuosi e bidimensionali - pronti a soddisfare le brame di una platea affamata (è proprio il caso di dirlo) di macabre e spettacolari nefandezze.

In questo contesto, l'assenza di un nuovo romanzo di Harris pesa. Gli appassionati e il pubblico di massa sperano in un terzo atto della saga di Hannibal, ma gli anni passano e la realizzazione di un nuovo libro corre il rischio di arrivare fuori tempo massimo rispetto ai frenetici mutamenti che interessano gli scenari sociali e culturali dell'Occidente.

Dalle voci che di tanto in tanto trapelano, si ha notizia di un Thomas Harris arenatosi senza rimedio nella stesura del manoscritto. E le news che riferiscono di un Dino De Laurentiis - tycoon cinematografico che aveva prodotto Manhunter: Frammenti di un omicidio - impegnato a stimolare la vena creativa del romanziere ospitandolo nella sua villa di Capri e coccolandolo con piatti a base di insalate, pomodori di Sorrento e mozzarelle di bufala, non lascia presagire nulla di buono.

De Laurentiis era rimasto scottato dall'insuccesso di Manhunter - film che oggi viene considerato come un gioiello ineguagliabile - e aveva ceduto ben volentieri, a titolo gratuito, i diritti per la trasposizione de Il silenzio degli innocenti alla Orion Pictures, casa di produzione che dopo i fasti degli anni Ottanta si era ritrovata in difficoltà economiche. Inevitabile che i trionfi ottenuti dal film di Demme (cinque Premi Oscar; 400 milioni di dollari raccolti in tutto il mondo tra incassi nelle sale e vendita di videocassette) avessero stimolato gli appetiti del produttore, pronto a cogliere tutti i benefici connessi a un atteso sequel.

In ogni caso, dopo un'attesa spasmodica - ulteriori rumors riferivano di un Thomas Harris impegnato addirittura a seguire in prima persona le sedute giudiziarie relative al processo del Mostro di Firenze - Hannibal vede alfine la luce.

Il giornalista Corrado Augias è tra i primi a riferire di un incipit del romanzo assolutamente spettacolare che vede Clarice Starling impegnata in un conflitto a fuoco con una spietata e terrificante capo-gang sieropositiva. Niccolò Ammanniti lo loda a sua volta, mentre, al contrario, il collettivo Wu Ming lo fa a pezzi contestandolo in tutto, dallo spessore narrativo e stilistico all'efficacia della traduzione in lingua italiana.

Quando il tomo mi giunge tra le mani, mi coglie il sacro terrore che le esigenze commerciali abbiano devastato a priori il nuovo romanzo di Harris: la copertina dell'edizione italiana ripropone in maniera quasi pacchiana la museruola di sicurezza che aveva contribuito a forgiare la fortuna iconografica di Lecter e il titolo - Hannibal - rappresenta una scelta troppo furba e poco originale rispetto a quella inizialmente proposta dallo scrittore ma rigettata dall'editore americano (il suggestivo, anche se di sicuro meno immediato, The morbidity of the soul). Oltretutto c'è il fatto che la prima parte del romanzo è ambientata a Firenze. Ed è noto che gli scrittori americani - anche i migliori - non sono esenti da semplificazioni e luoghi comuni quando si ritrovano a tratteggiare città e costumi europei.

E' il 1999, ho trent'anni e il mio mondo è cambiato. Ho iniziato da pochissimi mesi a insegnare; ho scritto due libri che stanno per riscuotere ottime recensioni; non sono un adulto, ma non posso neanche più rivestire i panni del ragazzino; ho una relazione stabile, ma non so ancora come voglio gestire il mio futuro. Più o meno inconsciamente rifiuto i progetti, allontano le responsabilità.

Hannibal disattende ogni aspettativa. Se volessimo azzardare dei paragoni, potremmo dire che mentre Red Dragon e Il silenzio degli innocenti erano delle opere potenti e manieristiche basate su un perfetto equilibrio di elementi polizieschi e noir tenuti insieme da atmosfere tipiche dei thriller psicologici, Hannibal è invece un noir barocco, pieno di diramazioni e punti focali, attraversato da ampie venature orrorifiche e situazioni da tragedia shakespeariana.

Ma se nel romanzo il dottor Lecter fa, in fondo, ciò che il pubblico da lui si aspetta, il pugno nello stomaco lo infligge Clarice Starling. Dal punto di vista narrativo sono trascorsi sette anni dagli eventi descritti ne Il silenzio degli innocenti e la giovane allieva dell'FBI si è trasformata in una donna amareggiata e priva di sbocchi professionali, una persona di talento il cui primo, prematuro successo è stato gettato nel dimenticatoio e per la quale le prospettive di carriera appaiono tarpate da giochi politici e burocratici. Una persona destinata a essere fagocitata (ecco "il morbo dell'anima") dalla complessa tela seduttiva di Lecter. Impossibile non riconoscersi in lei, allo stesso modo in cui è impossibile non provare una fitta al cuore ripensando a come il personaggio apparisse dieci anni prima, a quella ragazza che conservava ancora in fondo al cuore l'immagine di un agnellino destinato al macello. Un agnellino che lei aveva cercato di salvare dalla mattanza.

Hannibal è un romanzo rutilante, pieno di idee brillanti e di svolte macabre, di violenza e di atmosfere stranianti. Quando finisco di leggerlo non so se mi è piaciuto davvero, anche perché non sono più il ventenne che era rimasto stregato da Red Dragon e da Il silenzio degli innocenti. Quel che so è che si tratta di un romanzo nel quale il mio io si rispecchia appieno. Un io in fase di transizione.

A distanza di un anno e mezzo dalla pubblicazione di Hannibal, il sogno di De Laurentiis si trasforma in realtà: l'uscita nei cinema della trasposizione cinematografica del romanzo, diretta da Ridley Scott, si rivela esattamente il successo che il tycoon si aspettava.

Eppure il film di Scott incomincia a svelare l'inghippo: è evidente che Hannibal Lecter non è più l'affascinante creatura di un romanziere di talento, ma una sorta di maschera popolare che l'impresario De Laurentiis ha intenzione di trasformare in un franchise volto a saziare il gusto dozzinale di un pubblico volgare e pacchiano.

Scott accetta di girare il film a ridosso del trionfo de Il Gladiatore (e quando De Laurentiis gli fa cenno per la prima volta al titolo in questione, il regista pensa per alcuni momenti che il produttore abbia intenzione di presentargli il progetto di un kolossal storiografico incentrato sull'omonimo generale cartaginese). Jonathan Demme, che con Il silenzio degli innocenti aveva vinto un Oscar, aveva rifiutato di girare il sequel, ritenendo il nuovo plot lontano dalle sue corde. Anche Jodie Foster si era tirata indietro, probabilmente non ritrovandosi più nella figura di Clarice Starling così come emergeva dal nuovo romanzo di Harris.
L'unico a rinnovare il contratto è Anthony Hopkins che al dottor Lecter deve l'esplosivo picco di una carriera cinematografica che prima de Il silenzio degli innocenti era stata costante e più che discreta, ma non eccezionale. Ed è lui a proporre Julianne Moore, sua amica, bellissima e rivelatasi ottima attrice in diverse occasioni, per il ruolo dell'agente federale.

L'Hannibal cinematografico regge assai bene nel primo tempo. La Firenze rappresentata da Scott e dal fotografo John Mathieson è una bolgia infernale riemersa dalla medievale Età dei Comuni, una città sospesa tra Dante Alighieri e la Los Angeles futuristica di Blade Runner. Pure il montaggio del premio Oscar Pietro Scalia infonde ritmo alla storia. E al momento dell'intervallo si ha quasi l'impressione che il compito possa essere portato a casa senza troppi demeriti.

Ma è pur vero che Hopkins non è più quello de Il silenzio degli innocenti: è invecchiato, si è imbolsito, fa sfoggio di una pancetta da anziano in pensione. Il suo aspetto fisico differisce totalmente da quello del dottor Lecter letterario. Se nella pellicola di Demme il suo recitare rinchiuso in una gabbia, solo con gli occhi, inquadrato in una fissità quasi ieratica, gli forniva uno status di icona, il nuovo dinamismo a cui è chiamato in Hannibal lo rende a tratti impacciato e ridicolo.
E alla povera Julianne Moore non va meglio, intrappolata in un ruolo che nel romanzo era tutto psicologico e che le esigenze cinematografiche hanno depotenziato, reso informe, banalizzato.

E infatti il secondo tempo è una débacle su tutta la linea. Gli sceneggiatori - tra cui figura anche David Mamet, non l'ultimo arrivato - non solo rinunciano a un paio di personaggi chiave del romanzo, ma resettano completamente il finale originale, elaborando un pastrocchio che oltre a risultare privo di senso impone un mood consolatorio lontanissimo dalla poetica di Harris (comunque mai restio ad accettare qualsiasi manipolazione esterna delle sue trame).


Hannibal si rivela indubbiamente un successo, anche se la critica e una parte del pubblico intuiscono che sono diverse le cose che non tornano.

La strizzata d'occhio che il dottor Lecter rivolge agli spettatori poco prima dei titoli di coda è una cafonata inarrivabile che fa assomigliare il Cannibale allo sfigato sovrintendente Charles Dreyfus del ciclo filmico de La Pantera Rosa. Ed è, oltre che fuori luogo, rivelatoria di quanta distanza intercorra tra l'Hannibal dei romanzi, di Manhunter e de Il silenzio degli innocenti di Demme da quello finito nelle avide grinfie di De Laurentiis.

Non solo: ma tutto quel carico di violenza che nel romanzo Hannibal appariva grottesco e surreale, privo di connotati realistici, quasi ineffabile, nel film si tramuta in una festa del gore talora solo disgustosa, talora attraversata da una malriuscita vena ironica (per esempio, la sequenza in cui il dottore apre il cranio dell'agente Paul Krendler, ancora vivo e cosciente, per cucinarne il cervello, risulta tanto tragica e onirica nel libro, quanto brutalmente spettacolare e voyeuristica su celluloide).

Insomma, con l'Hannibal di Ridley Scott e Dino De Laurentiis sembra davvero chiudersi malamente un'epoca. Ma è pur vero che al peggio non c'è mai limite.
E infatti...

(3 - continua qui)

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